Ecco l’omelia dell’arcivescovo-abate monsignor Erio Castellucci in occasione della solenne riapertura al culto della Basilica abbaziale di Nonantola.
Il deserto e la notte: due simboli di smarrimento e di speranza insieme. Il deserto e la notte hanno ispirato migliaia di pagine letterarie, poetiche e religiose, perché hanno una forza evocativa speciale: il deserto richiama aridità, sete, caldo, sudore, ma anche sobrietà; la notte richiama paura, solitudine, disorientamento, morte, ma anche attesa.
La prima lettura di oggi, Festa dell’Esaltazione della Croce, è ambientata nel deserto del Sinai: gli ebrei, stanchi per il viaggio, protestano contro Mosè che li sta conducendo alla Terra promessa; rimpiangono la vita che conducevano in Egitto: là erano oppressi, ma almeno mangiavano a sazietà. Meglio una schiavitù con il salario minimo garantito che una libertà da conquistare a fatica. Quando la nostra vita attraversa il deserto, anche noi protestiamo, reclamiamo una condizione più serena. L’esperienza del deserto non risparmia nessuno: per qualcuno il deserto sarà l’aridità del peccato o la fragilità nelle relazioni; per qualcun altro la difficoltà di trovare e mantenere un lavoro o la debolezza della malattia o una qualsiasi altra sofferenza.
Il Vangelo cambia scena e ci trasporta nella notte. Nicodemo, uno dei capi dei giudei, che ha atteso il tramonto del sole per andarlo a trovare, vuole sapere qualcosa in più di Gesù e glielo va a chiedere nella notte. C’è il timore di essere visto dagli altri capi, forse, in questa visita notturna; ma c’è anche l’onestà della ricerca, l’attesa di una parola, la speranza di un’alba del cuore. Anche la nostra fede può passare attraverso la notte, che visita persino i santi. San Giovanni della Croce, il grande mistico del XVII secolo, espresse in una poesia intitolata proprio “La notte oscura” il faticoso cammino interiore dell’anima verso Dio, attraverso il passaggio per numerose prove. La vita mette alla prova la fede, perché il nostro rapporto con il Signore non è una “cosa” che si acquista, ma una “relazione” che si coltiva.
Come se non bastasse, nelle due letture compaiono i serpenti, che già da soli darebbero una certa inquietudine e che, abbinati al deserto e alla notte, addirittura terrorizzano. Il serpente nella letteratura viene spesso assimilato al male, perché striscia subdolamente e può uccidere, avvolgendo la vittima o avvelenandola. Nella Bibbia il serpente diventa simbolo del diavolo, incarnazione stessa del male. Il serpente minaccia, tenta, colpisce. Nel deserto è uno dei pericoli più grandi, uno degli animali più temuti. La notte poi rappresenta per il serpente l’ambiente ideale, perché può strisciare e colpire a sorpresa. Quando attraversiamo i deserti del dolore e le notti del dubbio, il serpente ci tenta: vorrebbe scoraggiarci , renderci inattivi e allontanarci da Dio e dagli altri.
Ma c’è un capovolgimento. Il serpente diventa, nelle due letture, simbolo di salvezza. Mosè è invitato da Dio a porre su un’asta quel segno di morte, perché chi lo guarda guarisca dal suo veleno. Chi ha il coraggio di alzare lo sguardo e non annega nei suoi mali, non si lascia scoraggiare dai propri limiti, volge gli occhi al cielo, è salvo. Solo Dio può dare vita attraverso quello stesso segno che per gli uomini è morte; solo lui può portare salvezza in quelle stesse situazioni che gli uomini vivono come condanna. Dio, cioè, non ci salva “nonostante” le sofferenze, ma “attraverso” di esse. La fede non è un vaccino che eviti la malattia – sarebbe troppo comodo – ma una medicina che permette di affrontarla mantenendo accesa la speranza.
Ancora più evidente, questo capovolgimento, nel Vangelo: Gesù paragona la sua futura crocifissione all’asta del serpente innalzata da Mosè. La croce, segno di maledizione, diventa segno di benedizione. Come può la pena più temuta e vergognosa trasformarsi in simbolo di benedizione? Gesù lo svela con queste parole: “Dio ha tanto amato il mondo da mandare suo Figlio”. La croce salva perché c’è sopra il Figlio di Dio che ha raggiunto il massimo della condivisione con i fratelli e il massimo dell’affidamento al Padre. Quella croce è davvero un crocevia: il culmine dell’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. Esternamente è solo segno di odio e di condanna, ma interiormente è segno di amore. Quando uno scopre questo segreto – che cioè guardando la croce di Gesù non esiste una sofferenza che schiaccia, un odio che vince o un male che non venga sopraffatto dal bene – per quanto strisciante e subdolo – allora la vita cambia davvero.
Questa Abbazia, che conserva una preziossima reliquia della Santa Croce, coniuga la custodia del simbolo più importante per i cristiani – la croce, appunto – con la tradizione monastica benedettina, improntata all’ordine e all’armonia; tradizione nella quale si collocò Sant’Anselmo quando la fondò a metà del IX secolo. Quasi a dire che la vera armonia è quella dell’amore, del dono di sé, del sacrificio. Le mura di questa stupenda Chiesa abbaziale, ora restituita al popolo di Dio dopo oltre due anni di interventi di consolidamento, restauro, pulizia e adeguamento, parlano il linguaggio dell’armonia dell’amore.
L’importanza dell’Abbazia per il popolo nonantolano e non solo, opportunamente richiamata nei discorsi delle autorità e degli esperti prima della Messa, è enorme. In queste settimane ne sono arrivati echi anche a me da varie parti d’Italia. L’Abbazia è segno di vita e di luce, proprio il contrario del deserto e della notte; perché in essa e attorno ad essa si è sviluppata la vita religiosa e civile di Nonantola: pensiamo solo alle centinania di monaci che nei secoli l’hanno abitata, alle migliaia di celebrazioni che, anche coinvolgendo il popolo, si sono tenute in questa Chiesa; al patrimonio religioso, artistico e culturale qui elaborato e conservato, alla bonifica e coltivazione dei terreni e alla promozione del lavoro e della giusta ricchezza dei cittadini: basta citare la straordinaria vicenda della “Partecipanza Agraria”. Vita e luce che da oggi riprendono, da questo luogo, a rinvigorire i nostri deserti interiori e illuminare le nostre notti. Grazie al Signore che continua a vincere il deserto e il buio; grazie a tutti coloro che si sono impegnati per giungere a questo giorno; grazie a tutti voi presenti, che con la vostra partecipazione rendere manifesta la natura della Chiesa, composta di “pietre vive”.
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