Quello che alle aziende (non) dicono
14.000 famiglie nel nostro territorio hanno un’attività di “micro” dimensioni, ovvero con meno di 10 dipendenti, o “piccola” fino a 50, dove per “micro” e “piccola” si intendono nei termini del gergo economico, perché sappiamo tutti quanto grandi, in realtà, siano nel loro impatto su chi ci lavora. Un rapido censimento ne conta circa 9.000 dirette al pubblico, 2.500 agricole, 2.500 di tipo industriale: di queste ultime 4/500 possono essere di piccole e medie dimensioni, il resto micro ma significative officine di lavorazione.
Questo quadro coinvolge almeno 30/40.000 famiglie e, in termini di singoli individui, indicativamente 80/90.000 persone. Questa bacino è all’interno di una demografia territoriale di circa 160/170.000 abitanti, all’interno dei comuni di cui ci occupiamo. Insomma: tra Panaro e Secchia, di fatto la metà circa della popolazione residente ha a che a fare con le attività commerciali, di qualunque tipo. E’ la loro vita, la nostra vita, perché è l’economia del nostro territorio e, di conseguenza, si parla di servizi e quotidianità: ecco perché le nostre aziende, a noi, interessano.
Cosa sta accadendo alle attività?
Oggi a caratterizzare il saldo negativo delle attività tra nate e cessate (il saldo negativo è certificato dal censimento CCIAA: 871 nuove iscritte contro 1080 cessate da gennaio a giugno 2019) non è più un effetto primario dell’implosione economica mondiale iniziata oltre quindici anni fa e conclamata solo a fine 2008. Non c’è solo la “crisi”, ma qualcosa di diverso. Cosa?
Considerando che in economia una “crisi” ha un ciclo complessivo globale di “rigenerazione” di circa 25 anni, ad oggi oltre una quindicina sono già andati, pertanto la contemporaneità è più vicina al compimento del processo che alla sua genesi. Questo significa che chi ha un’attività oggi o è sopravvissuto allo tsunami o è nato dopo il suo passaggio. Senza contare che il nostro territorio ha dovuto anche fare i conti, contestualmente, con il sisma e le sue conseguenze.
Ciò vuol dire che chi ha un’attività opera in un contesto che è configurato dal nuovo status, il day after, diverso dal precedente sostanzialmente sotto due aspetti:
1) la diminuzione drastica della capacità di spesa pro capite
2) l’esplosione esponenziale di Internet, sul quale la presenza effettiva è passata dai 2 miliardi e poco più di persone nel 2012 agli oltre 5 miliardi di oggi. Un aumento esponenziale anche di siti pubblicati: dai circa 700 milioni del 2012 ai quasi 2 miliardi di oggi.
Questo significa che la guerra commerciale sul web è spietata: si cerca su internet, si trova su internet. Solo che non ce n’è abbastanza per tutti, perché da un lato si trova un bacino di consumatori con capacità di spesa drasticamente ridotta, dall’altro l’utente singolo che oggi “vive” su internet può essere raggiunto da chiunque ne sia capace. Ecco, appunto: l’uomo più ricco al mondo attualmente è il signor Amazon. Non è un caso.
Perché è obbligatorio essere online
Internet è dove vivono le persone oggi, internet è dove deve essere presente un’attività, qualunque essa sia, è fin troppo banale la consequenzialità, ma è qui che si origina la causa della costante chiusura di attività, oggi a livelli che tutti dicono preoccupanti ma che ancora sono nulla in confronto a ciò che si sta sviluppando.
D’accordo allora, bisogna essere online. Qui però si assiste ad una semplificazione… semplicistica e autolesionista. A volte ci si ferma all’idea di esserci e basta. Come? Grazie a un figlio capace a smanettare, a un amico bravo, al me lo faccio da solo. O, ancora, a chi promette di farci essere i primi su Google, di aumentarci il fatturato o regalarvi migliaia di clienti grazie a Facebook. Tanti ce la vendono facile. Troppo facile.
Perché solo il 20% delle imprese è “realmente” on line?
La percezione generale, sopratutto delle piccole attività, rispetto alla realtà è troppo sfocata, nebulosa, perché è osservata da troppo lontano, e questo fa sì che solo il 18/20% siano “realmente” online.
Meglio guardarla da qui:
– se ci sono quasi 2 miliardi di siti pubblicati,
– se ogni giorno ci sono 6 miliardi di ricerche,
– se chi gestisce il 99% delle ricerche risponde ad ognuna in un tempo inferoire a mezzo secondo,
di quale livello di complessità saranno gli algoritmi di ricerca?
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