Il sibilo. Il boato. La scossa, lunghissima, implacabile. Poi, il silenzio. Le macerie. Il bisogno di ripartire. La Bassa non dimentica il sisma del 2012 che in quel maggio è esploso dalle viscere della terra e l’ha sconvolta, trasfigurata. La Bassa vuole ricordare, perché è dal ricordo che nasce la forza per andare avanti, rinnovarsi, inventare, ricominciare ancora una volta. La resilienza emiliana, la capacità di reinventarsi pur mantenendo intatte le tradizioni è conosciuta ovunque. In questo momento storico in cui un altro “terremoto” ha scosso le basi non solo dell’Emilia, ma di tutto il mondo, in cui è necessario riprendere i propri passi, o intraprenderne di nuovi, abbiamo raccolto voci di artisti, scrittori, sceneggiatori, musicisti, che ci hanno raccontato come hanno vissuto quella ripartenza. E non solo quella. (E.G.)
Barbara Baraldi, scrittrice, San Felice sul Panaro:
Ci sono anniversari che non si vorrebbero dimenticare mai, giorni di felicità che vorremmo restassero per sempre impressi nella memoria, ma soprattutto nel nostro cuore. Il giorno della laurea, quel compleanno da bambino quando il nonno ti aveva regalato proprio il giocattolo che desideravi, la nascita di un figlio; la prima volta che hai guardato quella persona negli occhi e l’hai riconosciuta come parte di te. Una giornata al mare con il sole che sembra lambire la superficie dell’acqua, le onde si infrangono a riva con morbidi sussurri e senza motivo hai pensato che in fondo basta poco per accarezzare un istante di felicità, perché la vita è fatta di attimi, sì, proprio come dicono le canzoni.
Ci sono giorni invece che, forse, preferiresti dimenticare. Ma dentro di te lo sai, che non potrai dimenticarli mai. Il 20 e il 29 maggio 2012, per esempio. Due date, come fratture indelebili nel cuore della nostra Emilia.
A otto anni dal terremoto, constato quanto questa esperienza mi abbia cambiata fin nelle ossa. Lo capisco osservando, per esempio, come ho reagito all’emergenza Covid.
Ho visto persone disperarsi nel dover rimanere a casa, claustrofobici, arrabbiati o sfiancati al pensiero di rimanere rinchiusi tra le mura della propria abitazione. Vivendo sull’epicentro del terremoto, dopo la prima grande scossa ho vissuto da sfollata, dormendo le prime notti in auto e poi in tenda nel parchetto del mio quartiere. Ho provato la stanchezza devastante, unita al desiderio lacerante di rientrare nel mio appartamento, senza poterlo fare per mesi. Infine, dopo i lavori di ristrutturazione, sono stata tra i fortunati a poter rientrare, anche se all’interno non si è salvato quasi nulla. Ma c’è chi soltanto quest’anno ha potuto riavere la sua abitazione, ridotta in macerie e poi ricostruita.
Quindi per me, dover rimanere a casa oggi, non è stato una tortura; non l’ho vissuto dolorosamente. Avere una casa è un dono, qualcosa che non do per scontato, perché ho vissuto sulla pelle cosa significa, all’improvviso, non avere un tetto a cui tornare.
Sì, il terremoto mi ha cambiato nelle ossa. È una sinfonia che la mia mente non ha dimenticato e, quando sto male oppure ho preoccupazioni assillanti, mi capita ancora di svegliarmi di soprassalto alla stessa ora, le 4:04 del mattino, come quella domenica in cui tutto è cambiato.
I detriti sono cantieri, oggi. Il nuovo centro storico sta prendendo vita e con esso nuove abitudini. Da parte mia ho capito, una volta di più, quanto sia importante ricordare.
Voglio ricordare come ci siamo risollevati, voglio ricordare che abbiamo saputo trasformare la paura in coraggio, voglio ricordare anche per chi non c’è più.
Perché i nostri ricordi nessun terremoto potrà mai abbatterli.
Siamo qui, nella nostra terra. Ancora.
E oggi siamo più forti, nell’affrontare le nuove emergenze che la vita ci mette davanti.
Cinzia Bomoll, scrittrice, sceneggiatrice e regista, Sant’Agata Bolognese:
Tornai da Roma solo dopo il terremoto, al mio paese della bassa emiliana dove qualche casa era crollata, vecchia, come quella di mia nonna.
Ciò che suonò più pauroso per me non furono i rumori delle scosse dunque, ma i rumori che fece la gente, la gente dopo il terremoto.
Il dopo è sempre peggio del durante.
Andrea Cotti, scrittore e sceneggiatore, San Giovanni in Persiceto:
Dopo il terremoto, le scosse di assestamento
Il terremoto ha crepato la mia casa, ma le scosse di assestamento sono state molto più lunghe e profonde.
Vivevo a Roma, allora. Sono tornato, ma a casa mia non potevo entrare.
Adesso vivo in quella casa, ma non più a Roma.
Adesso, anche se ci vivo dentro, non so più se quella casa è ancora casa mia.
Adesso, anche se non ci vivo più, sento che forse l’unica casa che davvero un po’ ancora mi appartiene è quella di Roma.
Nel mezzo, tra allora e oggi, ci sono state altre due case che ho abitato e che adesso non abito più.
E ci sono state case che la mia famiglia ha venduto.
E con quelle case vendute ci sono persone che se ne sono andate.
Allora scrivevo, adesso scrivo.
Sento ancora l’onda lunga di ciò che ho perso, sento ancora la terra che un po’ trema.
Ma sono qui.
Si ricomincia sempre. Anche con la paura. Anche se la terra non smette di tremare.
Si ricomincia, perché siamo vivi.
Non serve nessuna altra ragione, non serve la forza, nemmeno la speranza.
Siamo vivi, il cuore batte, riusciamo a stare in piedi.
Allora, si va avanti.
Andrea Gozzi, musicista, Mirandola:
Ho un ricordo fortissimo del primo anno. Ricordo la mia corsa al primo bar per farmi dare un doppio Jack Daniels dal barista, appena dopo la scossa del 20 maggio, per riprendermi dalla botta. Ho perso una casa, e da maggio a settembre di quell’anno ho vissuto in tenda.
La paura era forte e lo stato psicologico a terra. Ho dovuto anche affrontare un cambiamento totale in ambito lavorativo e ritrovare una strada anche lì.
Se ho superato quel momento è stato solo grazie alle persone che ho avuto accanto in quel periodo della mia vita, che erano quelle giuste, e grazie alla musica: quasi tutto il mio percorso post-terremoto è stato occupato dalla musica, e grazie a lei sono rinato.
Gianluca Morozzi, scrittore, Bologna:
“Vogliamo ricominciare a sentirci vivi”. Questa era stata la precisa frase del libraio del Posto delle Fragole di Cento.
Il mio contributo, il modo in cui avrei potuto aiutarli a sentirsi vivi, sarebbe stato condurre un corso di scrittura creativa in quella libreria. Una volta alla settimana, per due ore, avrei fatto una cosa che per me era ordinaria e normalissima: entrare in una libreria e parlare a un gruppo di persone di numero variabile, raccontando trucchi e segreti sul dialogo, sull’incipit, sulle descrizioni. Una cosa che era ordinaria e normalissima, però, per me. Che vivo a Bologna, e del terremoto avevo vissuto solo il tintinnare di un lampadario da soffitto che ballava in modo inusuale.
Ma quando avevo parcheggiato a Cento, appena sceso dalla macchina, avevo visto tutto. I portici inagibili, e i mucchi di macerie transennati. Le pareti puntellate, e le crepe nelle case.
Quando il libraio mi aveva annunciato “è incredibile, è un miracolo, avevo paura che non si iscrivesse nessuno, invece siamo in tanti!” ero stato contento per lui e per me, ma il suo mi era sembrato un atto di pessimismo eccessivo.
E poi avevo capito, però, alla prima lezione. Quando avevo notato la direzione duplice degli sguardi, che erano fissi su di me, mentre gli allievi mi ascoltavano, ma dardeggiavano periodicamente sulle porte della libreria. Quella principale, che dava sulla corte interna. Quella sul retro, che portava a un più ampio cortile.
E coglievo i calcoli che stavano facendo nella loro mente, intanto che ascoltavano le mie teorie sui modi per trovare spunti creativi. Nel caso di una scossa, quanto ci avrebbero impiegato a raggiungere una o l’altra porta? Quale delle due situazioni sarebbe stata più sicura? Era meglio sedersi lontani da quella pesante scaffalatura?
E ricordo quando eravamo usciti per brindare alla fine del corso, nella città ancora rabberciata e puntellata, ma un po’ meno della prima volta. Ce l’avevamo fatta. Si erano sentiti vivi.