I giovani disoccupati modenesi vivono con i genitori, a volte anche con figli e compagni, alternano periodi di disoccupazione a lavori saltuari, spesso irregolari; le occasioni di lavoro non mancano ma anche dopo essere stati assunti a tempo indeterminato o in apprendistato si licenziano insoddisfatti e anche dopo diversi tentativi non riescono ad avviare un progetto professionale soddisfacente e rimpiangono di aver abbandonato gli studi. E’ questa la fotografia del giovane disoccupato modenese iscritto ai Centri per l’impiego della provincia di Modena secondo una ricerca condotta su un campione di circa 200 giovani modenesi con cittadinanza italiana, di età compresa tra i 16 e 29 anni, senza titolo di studio. Un campione selezionato tra i 3.200 iscritti ai Centri per l’impiego modenesi, sempre senza titolo di studio su un totale di quasi 8.400 giovani iscritti; per approfondire i rapporti dei giovani con scuola, vita e lavoro sono state realizzate anche 2o interviste.
L’indagine, dal titolo appunto “Giovani senza, ricognizione quali/quantitativa dei percorsi professionali dei giovani iscritti ai Centri per l’impiego”, è stata presentata martedì 16 dicembre a Modena su iniziativa della Provincia di Modena con la collaborazione delle Province di Reggio Emilia e Rimini e il supporto tecnico di Italia Lavoro spa (agenzia tecnica del ministero del Lavoro). All’evento è intervenuta anche Emilia Muratori, consigliere provinciale con delega alla Formazione professionale.
In provincia di Modena il tasso di disoccupazione Istat nella fascia di età 16-29 anni supera il 18 per centro.
Come ha evidenziato Monica Gaddoni di Italia lavoro nel presentare l’indagine, «nella maggior parte dei casi, i giovani intervistati vivono in famiglia, alternando periodi di disoccupazione a periodi di lavoro come colf, baby sitter, muratore, meccanico, aiuto parrucchiere ed estetista. Le competenze acquisite non vengono percepite come capacità spendibili sul mercato, insomma non arricchiscono e non formano».
In genere la prima occasione di lavoro è stata un apprendistato, una scelta spesso non dettata da un chiaro obiettivo professionale, ma vissuta tuttavia positivamente e più lunga rispetto alle successive. Nonostante le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro risultino almeno sulla carta favorevoli per tipo di contratto e durata, nel 44 per cento dei casi il primo rapporto di lavoro si risolve con le dimissioni, quindi con un’uscita volontaria del giovane.
Le opportunità, comunque, non mancano: i ragazzi hanno in media 4,7 occasioni di lavoro all’anno, temporanee e la cui durata media è di cinque mesi.
Dall’indagine emerge con chiarezza la difficoltà dei giovani a seguire un filo conduttore nelle esperienze lavorative. I giovani hanno desideri professionali che però difficilmente riescono a trasformare in progetti lavorativi. I rapporti restano frammentari, alimentano instabilità e favoriscono l’abbandono di eventuali desideri professionali la cui scelta è spesso dettata unicamente dall’urgenza di avere una retribuzione.
Spesso i ragazzi lamentano ostacoli percepiti come insormontabili e una scarsa capacità di attivazione sul mercato del lavoro; il fallimento è attribuito a fattori esterni, frutto di scelte passate (insuccessi scolastici, mancanza di un titolo di studio o di conoscenze e competenze spendibili) che generano rassegnazione e sull’abbandono degli studi emerge un forte senso di fallimento e di occasione persa.
A parte le motivazioni che hanno portato a tale scelta (la perdita di un genitore o la precoce genitorialità, la cattiva relazione con insegnanti e compagni), emerge spesso un contesto socio-culturale in cui alla scuola non è stato dato sufficiente valore, fornendo un alibi alla rinuncia.
Nelle interviste, infatti, non emergono figure di adulti di riferimento particolarmente attenti al loro futuro, né in ambito familiare, né in ambito scolastico.