“Mia figlia Giulia è morta per mano di suo marito, ma la giustizia italiana a volte sembra processare più le vittime che i carnefici. Lui è stato condannato in primo grado a diciannove anni e quattro mesi di reclusione, confermati dal giudizio in appello nel 2012, e il 17 settembre scorso in Cassazione. Dove abbiamo rivisto il copione di sempre, quello che, in nome della legge, calpesta la vittima per minimizzare, giustificare un feroce e squallido assassinio”. Giovanna Ferrari, ex insegnante elementare in pensione di Sassuolo, in provincia di Modena, madre di Giulia Galiotto (in foto), uccisa a 30 anni dal marito, trentacinquenne Marco Manzini l’11 febbraio 2009, ha imparato a trattenere le lacrime. Il suo dolore, la sua rabbia, la sua delusione le ha messe nero su bianco in un libro. “Per non dargliela vinta”, questo il titolo, è diventato il libro-simbolo della lotta contro lo stalking e il femminicidio.E’ Antonio Murzio a recensire il libro di Giovanna Ferrari. Prosegue Murzio.
“Raccontare quello che mi è successo”, dice Giovanna, “mi ha aiutato ad andare avanti. Perché abbiamo diritto di conoscere tutta la verità su quello che ha fatto quell’individuo”.
Erano 16 di giovedì 12 febbraio 2009 quando i carabinieri rintracciarono Marco Manzini al pronto soccorso dell’ospedale di Sassuolo, dove era andato a farsi medicare al braccio sinistro che lui stesso si era fratturato nella colluttazione con la moglie.
Solo quattro ore dopo, intorno alle 20, l’uomo crollò: “Ieri sera c’è stata una discussione tra me e mia moglie, abbiamo cominciato a litigare furiosamente. In un attacco d’ira ho raccolto un grosso sasso e ho colpito violentemente Giulia alla testa. Lei è caduta a terra, io ho continuato a colpirla fino a quando non ha smesso di respirare”.
Infilato il corpo della moglie in un sacco dell’immondizia, Manzini lo carica nel bagagliaio della Seat Ibiza della donna. Prima di salire in auto si cambia gli abiti insanguinati e pulisce il pavimento del garage. Poi si libera del cadavere di Giulia Galiotto gettandolo nel fiume Secchia, da un manufatto in cemento alto una decina di metri per far pensare a un suicidio.
Lasciato cadere nel vuoto quel corpo senza vita, Marco raggiunge nuovamente l’auto, raccoglie il masso con il quale ha colpito la moglie e lo getta nelle acque del Secchia. “Ho fatto tutto questo in uno stato di concitazione”, sarà la sua versione per accreditare l’orrendo crimine commesso come un delitto d’impeto.
Una versione smentita, però, dalla lucidità con la quale in due diversi cassonetti l’omicida si sbarazza del sacchetto con gli indumenti insanguinati e di strofinaccio e secchio con i quali ha pulito il pavimento del garage.
Non solo.
Poco dopo si dirige verso Sassuolo e porta a lavare l’auto di Giulia, per farla ritrovare in prossimità del luogo dove ha gettato il corpo. Lasciata l’auto, torna a piedi fino a casa dove entra scavalcando il muro sul retro per evitare di essere visto. Una volta in casa si toglie i vestiti insanguinati, li infila in un sacchetto di cellophane e li ripone nel bagagliaio della sua Punto.
Inizia a costruirsi un alibi. Compone più volte il numero del telefonino di Giulia. Alle 23,10 contatta telefonicamente casa dei suoceri e dopo aver chiesto se la moglie era da loro, ottenuta una risposta negativa, dice: “Ho trovato sul letto un biglietto di Giulia, sono molto preoccupato”.
“E ancora adesso quell’uomo che avevamo accolto nella nostra casa come un figlio, a distanza di quattro anni dal giorno che ha ucciso la donna che lo amava, continua a sostenere che si è trattato di un raptus e non di un omicidio premeditato”, protesta Giovanna Ferrari. “Giulia fu uccisa dal marito nel garage dell’abitazione dei genitori di lui. Mia figlia era laureata in psicologia ma aveva trovato un impiego in banca mentre lui, Marco lavorava come progettista di circuiti elettrici in un’azienda. Avevano cominciato a frequentarsi sin da ragazzini, poi l’amicizia si era trasformata in amore e nel 2005 si erano sposati. Giulia aveva un carattere molto solare, era una ragazza molto aperta e lui, dopo che l’ha uccisa, ha continuato a sostenere che aveva il sospetto che lo tradisse. Niente di più falso. A tradirla invece era lui”.
Durante le indagini si scoprì faceva lui che aveva registrato sulla rubrica del suo cellulare il numero dell’amante alla voce “Volpe” e proprio a lei mandò un messaggio poco prima di essere arrestato: “Ho ucciso mia moglie, la mia vita è finita, scusami”. “Durante il processo ha cercato in tutti i modi di far passare l’omicidio come un momento di pochi minuti in cui ha perso la ragione”, continua Giovanna, “e i periti hanno parlato di “discontrollo episodico”, una cosa che ci ha rattristato ancora più delle sue bugie”. A testimonianza del fatto che Marco Manzini volesse la morte della moglie c’è un biglietto scritto da Giulia che l’uomo consegna subito agli inquirenti – in cui la la giovane donna minaccia il suicidio.
“Quel biglietto, però, mia figlia l’aveva scritto quattro anni prima, sei o sette mesi prima del matrimonio con Marco, quando aveva avuto qualche dubbio se sposarlo o meno”. “Perché conservarlo per tutto quel tempo?”, si indigna la mamma di Giulia, “per quale motivo, se non per poterlo utilizzare alla bisogna? Come si fa ad escludere la premeditazione?”.
“Nell’ultimo periodo di vita di mia figlia il loro matrimonio vacillava per il fatto che Giulia avrebbe desiderato avere un bambino, desiderio che il marito non condivideva. Mia figlia adorava i bambini. Il suo ritratto che ho scelto per la copertina del mio libro è stato ritagliato da una fotografia in cui lui era con i due bambini dell’altra mia figlia Elena, di quattro anni più giovane di Giulia”.
Proprio la testimonianza di Elena sarà determinante per incastrare Marco Manzini a meno di quarantotto ore dall’omicidio della moglie. “Elena aveva assistito alla telefonata ricevuta da Giulia sul cellulare. Marco le dava appuntamento nel garage di casa dei suoi genitori, che si trova in un paesino, San Michele dei Mucchietti. Le diceva di raggiungerlo senza farsi vedere perché aveva da darle una cosa. Giulia pensò che forse voleva consegnarle il regalo di Natale che quell’anno avevano deciso di comune accordo di scambiarsi in ritardo per aspettare i saldi. Invece...”.
“Durante tutte le udienze del processo Marco si comportava come se fosse lui la vittima, ha continuato a raccontare una verità tutta sua e se ne vantava. Ma non riusciva a sostenere il nostro sguardo, il mio, quello di mio marito e di mia figlia Elena. Ha sostenuto di aver agito in preda alla gelosia in un momento di follia, la solita scusa che utilizzano gli stalker e i manipolatori. Sì, perché Marco ha reso impossibile la vita a Giulia, la sua, prima dell’omicidio, è stata la forma di violenza più subdola, quella psicologica, tipica di una persona che la perizia psichiatrica ha definito “anaffettiva”, incapace cioè di provare sentimenti. Ma ancora più dolorosa è stata la violenza che Giulia ha dovuto subire da morta, durante il processo. Lui ha cercato in tutti i modi di denigrarla, di offenderne la memoria”. “Se la violenza di Marco su Giulia fosse stata fisica, se l’avesse picchiata, sarebbe stato più semplice intervenire. Ma mia figlia lo amava e pensava che nonostante la crisi che stavano vivendo tutto si sarebbe potuto aggiustare. Lui nell’ultimo periodo la rifiutava anche sessualmente, la faceva sentire una nullità. Aveva cominciato a ignorarla non solo come donna, ma anche come persona. Giulia era rimasta a vivere con lui, solo una sera, ventiquattro giorni prima della sua morte, si era fermata a dormire da noi”.
Tre anni dopo l’omicidio di sua figlia, Giovanna ha deciso di scrivere il libro: “Ho sempre fatto la maestra elementare, ma non ho mai avuto velleità di scrittrice. Ho sentito il bisogno di raccontare la storia di Giulia non solo “Per non dargliela vinta” al suo carnefice, ma per aiutare le tante, troppe donne che sono vittime di uomini che in fondo sono capaci di amare solo se stessi. Il libro è nato dalla rabbia e dalla disperazione: ho dovuto accettare un’atrocità commessa da un ragazzo che avevamo accolto in casa nostra come un figlio. Non vogliamo che altri genitori soffrano il dolore atroce della perdita di una figlia e che una qualsiasi donna, martoriata nel corpo, possa esserlo anche nel ritratto che di lei emerge in un’aula di tribunale”. “I meccanismi di chi uccide la propria compagna”, conclude Giovanna, “sono sempre identici. Per questo alle donne dico che la prima cosa da evitare è presentarsi a un ultimo incontro per un chiarimento. Molto spesso, purtroppo, quell’appuntamento è con la morte”.
“PER NON DARGLIELA VINTA . Scena e retroscena di un uxoricidio” di Giovanna Ferrari
L’11 febbraio 2009 Giulia viene assassinata dal marito, a soli 30 anni. Un delitto atroce, assurdo, inspiegabile, che sconvolge e lacera il tessuto di un’intera esistenza ordita intorno agli affetti e ai valori della famiglia. Una tragedia inaspettata che, col procedere delle indagini e dell’iter giudiziario, rivelerà una realtà sconcertante, ben diversa dall’apparente armonia della coppia. Da sotto la maschera di persona integerrima, “moralmente ineccepibile”, che l’assassino continuerà ad indossare per tutto il corso del processo, infierendo senza remore e sensi di colpa sulla sua vittima, compariranno i tratti distintivi del narcisista, anaffettivo, prevaricatore, attento unicamente al proprio tornaconto. Il libro vuole essere innanzitutto un ricordo il più oggettivo possibile della figura e della personalità della giovane donna brutalmente uccisa e ulteriormente “brutalizzata” dalle infamanti distorsioni della sua immagine, operata, a scopi difensivi, dal suo assassino.Il racconto ripercorre i fatti e gli elementi strutturali del delitto, la sua elaborata articolazione, ma soprattutto i retroscena nascosti: la ricostruzione, fatta, per quanto è possibile, attraverso il ricordo, le testimonianze agli atti e le dichiarazione stesse dell’uxoricida, del rapporto di coppia, nel tentativo di ristabilire l’ equilibrio e l’oggettività di cui peccano grandemente le risultanze processuali, che hanno dato fede assoluta all’unica voce narrante autorizzata e oggettivamente possibilitata ad esprimersi: lui, l’assassino.
Ne emergono le dinamiche relazionali “malate”, che da violenza psicologica, sottile e invisibile, sono sfociate in efferato crimine. Inoltre, dall’analisi degli atti processuali (perizia psichiatrica, motivazione alla sentenza, ricorso del PM, oltre che dei documenti agli atti), il libro vuole portare allo scoperto il sommerso di una vicenda processuale, di cui, deliberatamente vengono “oscurate” le parti scomode nell’ottica di “quella sentenza”, assolutoria, il più possibile anche dal punto di vista giudiziario, incondizionatamente da un punto di vista “culturale” e “civile”. E a questo punto il fatto singolo rientra nel problema più ampio e drammaticamente urgente della violenza di genere.
Giulia, in quanto donna, rappresenta tutto l’universo femminile, offeso, colpito, stigmatizzato dalla violenza e dall’ingiustizia. Un libro, quindi, per raccontare e mettere davanti a tutti quella verità che si vuole nascondere e archiviare, una volta chiuso il fascicolo processuale. Si propone di contrastare con la forza della testimonianza, della parola, della condanna, senza scusanti e attenuanti, ogni forma di violenza e sopraffazione che condizionano la vita della donna, relegandola ad un ruolo di sudditanza, sia essa agita dal singolo uomo che dalla collettività nelle sue espressioni istituzionalizzate. Si rivolge alle coscienze individuali, alle persone comuni, di buon senso, donne, ma anche uomini, capaci di prendere le distanze da un’immagine distorta di virilità, di mascolinità, che traducendosi in tracotante brutalità, retaggio di una cultura patriarcale e misogina, nega alla donna quell’uguaglianza davanti alla legge, sancita dalla nostra Costituzione.
Grazie ad Antonio Murzio per la gentile concessione